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Saggi di Raffaella Ferrari

"La finitudine delle cose umane - L'esempio di Carducci e Pascoli"

C'è stato un periodo della storia italiana in cui il mondo intellettuale ha maggiormente avvertito la caducità delle cose terrene.
È un dato ormai acquisito, quello secondo il quale gli avvenimenti politici e storici hanno ripercussioni più o meno forti sulla visione della vita che la cultura stessa crea. Questo fenomeno spazia in vari campi: dall'arte alla letteratura, dalla musica alla poesia. Risulta, dunque, di facile comprensione il fatto che, periodi sociopolitici di grandi cambiamenti, comportano una sorta di smarrimento nei sentimenti di coloro che, per vocazione o per passione, si sentono portati ad un'interpretazione più profonda della realtà. Viene di conseguenza che la fine di qualcosa, sia essa un credo politico, una filosofia di vita o semplicemente un ordine precostituito, comporta sempre una crisi interiore. Non è un caso, infatti, che il termine crisi in greco significhi esattamente cambiamento.

Gli anni che vanno dalla seconda metà dell'Ottocento alla prima metà del Novecento si caratterizzano proprio per i grandi cambiamenti che investono la società italiana (ed europea tutta). Attraversare due guerre mondiali, darsi una nuova costituzione, ritrovare una stabilità politica fondata su nuove convinzioni, sono passi che richiedono grande impegno e che comportano spesso la perdita dell'equilibrio interno di una popolazione intera.
A questi sconvolgimenti politici viene ad aggiungersi una nuova concezione filosofica della vita stessa che gradualmente va perdendo la fiducia nell'infallibilità della scienza che aveva sostenuto i pensatori del secolo passato. C'è da ricordare, infatti, che l'uomo ha sempre avuto necessità di trovare un aggancio, un appiglio sicuro al quale rimandare le inevitabili domande inappagate che l'esistere comporta come conseguenza. Durante il periodo Medievale ci si rifugiava nel misticismo, l'Illuminismo trovò la sua àncora nel credo scientifico, l'Era Contemporanea, sforzandosi di regalare all'uomo una veste primaria e centrale nell'Universo intero, ha negato all'individuo la possibilità di trovare una stabilità; nel tentativo di elevarlo, l'ha, infatti, gettato in balia di responsabilità troppo grandi, e del peso di domande troppo trascendenti perchè un singolo possa, da solo, rispondervi.

In questo panorama gli esempi culturali di tale smarrimento si sprecano. Da Nietzsche a Heidegger, da Montale a Bressan e Breil, fino a spingerci addirittura a manifestazioni più moderne e a mezzi di comunicazione più insoliti come la musica leggera (da Bob Dylan al nostro Fabrizio De Andrè).
È però, interessante notare come anche altri pensatori, ritenuti generalmente più lontani da questo male di vivere, ne abbiano invece lo stesso risentito, magari in modo meno evidente. È il caso di Carducci e Pascoli. Proprio Carducci, considerato spesso come l'esponente di una tenace resistenza alla cultura moderna esplicata in un amore morboso per il classicheggiante, può invece fornirci un ottimo mezzo d'interpretazione del mondo culturale moderno e di quello smarrimento, sgomento e triste, di cui si è testè relazionato. Non bisogna dimenticare, infatti, che egli partecipò, in gioventù, attivamente alla vita politica; militò nel Partito d'Azione, fu garibaldino, repubblicano ed anticlericale. Se i giochi della vita lo portarono poi ad amalgamarsi con l'Italia Ufficiale, divenendone persino portavoce, non fu, probabilmente, che a causa proprio della difficoltà di trovare un mondo sicuro nel quale riporre convinzioni che restassero tali senza limite di tempo o di luogo. La sua fu, dunque, una politica instabile, sempre sospesa fra il suo senso pugnace della vita e le sue malinconie di uomo moderno che lotta per non arrendersi all'inesorabilità delle cose umane. Ne deriva lo sforzo di inserire in un linguaggio aulico e prezioso, moti moderni dell'animo e, addirittura, spunti di realismo impressionistico. È così che il Carducci incarna quella sensibilità nervosa e morbosa che va man mano affermandosi, talvolta proprio in polemica con lui e con la sua lirica. C'è da rilevare che i percorsi storici seguono, a volte, vie tortuose, che si scontrano e s'incontrano con i protagonisti stessi della storia, e che questo fenomeno porta spesso degli autori a trovarsi in contrasto col periodo socio-politico del quale essi stessi sono figli. E questo scontro diventa ancor più evidente nei periodi di grandi cambiamenti, esplicandosi proprio nel malessere, in quella sorta d'inadeguatezza che l'uomo prova quando si misura con la crudezza della vita.

La morte, non tanto, forse, la propria, quanto quella delle persone vicine, o delle cose, delle idee, non può lasciare insensibili, non può non pungere nell'animo chiunque voglia o debba occuparsi delle cose umane. È così, probabilmente, che nascono poesie di grande capacità di affetti e di linguaggio originale come Pianto Antico, che intreccia echi letterari (già evidenti nel titolo) a situazioni personali (la morte del proprio figlio) fino a spaziare verso il grande respiro della Natura tutta, che nasce, cresce e muore, in un ripetersi continuo ed infinito.
Il sentimento che ne trapela è molto simile a ciò che scaturisce dalla lirica X Agosto di Pascoli. Quest'ultima si regge su un tessuto nello stesso tempo semplicissimo ed elaboratissimo, tutto un susseguirsi di scambi, paragoni e contrasti fra vissuto personale e vissuto universale, fra uomo e natura. Si tratta di allargare un episodio, un caso particolare, e di elevarlo a simbolo di un'eterna tragedia universale. Ed anche qua, come in Pianto Antico, c'è, appunto, un pianto, vera metafora del male di vivere, che è il piangere del Cielo tutto, che s'incurva nella sfavillante cascata di stelle che appare nella notte si S. Lorenzo. Ecco, quindi, che anche Giovanni Pascoli si colloca perfettamente all'interno di quella parabola decadente di cui si è prima parlato. Anch'egli, dunque, figlio di un'epoca di grandi cambiamenti, fu preda di inquetitudini e utopie, di desideri inappagati e paure radicate. Tutta la sua storia umana si può forse riassumere nel desiderio quasi maniacale di ricostruire il proprio nucleo famigliare, nido sicuro nel quale trovare, finalmente, sollievo alle pene che il vivere stesso spesso comporta. Castelvecchio Garfagnana, luogo in cui il poeta andò a vivere con le due sorelle, fu proprio questo, un porto sicuro dove cercare certezze che certo la vita moderna non può più offrire. Se Pascoli trovò o meno queste certezze è difficile a dirsi. Ma, forse, l'illusione è proprio ciò che la cultura moderna, nomade ed irrequieta, va cercando.

"L'urlo" - 1893 circa - olio su tela - Oslo, Munch-Museet